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martedì 30 luglio 2013

Ah difettivi sillogismi!! G.Gozzano


    L'io
    che c'è sì caro, muore ad ogni istante
    senza rimpianto. Muore nel riposo
    e nella veglia. Un calice di vino
    un grano d'oppio, uno sbigottimento
    una ferita, basta a dileguarlo.
    Ma ci acqueta il pensiero che al risveglio
    ritroveremo intatto e vigilante
    il buono fanciulletto interïore
    che ci ripete d'esser sempre noi...
    Ah! Fanciullesca è veramente questa
    anima semplicetta che riduce
    alla nostra stadera l'infinito;
    nutre speranze, chiede privilegi
    più spaventosi del più spaventoso
    nulla, ché il nulla è non poter morire.
    Come pensare senz'abbrividire
    tutta l'eternità chiusa nell'io
    in quest'angusto carcere terreno?
    Quasi bramosi fantolini e vani
    preghiamo un bene e non sappiamo quale.
    Quando per anni o per follia s'offusca
    l'altrui cervello, quella decadenza
    più non c'inquieta della decadenza
    corporea. Permane la speranza
    che l'io del caro sopravviva ancora
    mentre è già come se non fosse più.
    Ora se quasi ci si acqueta in vita
    allo sfacelo della mente immemore
    che mai vogliamo dalla morte immune?
    Questa cosa di noi che vuol persistere
    indefinita, è dunque indefinibile
    come il raggio ch'emana dalla lampada,
    come il suono che emana dal lïuto;
    lampada e lïuto sono tra gli arredi
    più famigliari e semplici che posso
    scomporre ricomporre con le mani;
    il mistero m'appare se mi chiedo
    che sia, di dove venga, dove vada
    il prodigio del suono e della luce...
    Oimè! L'essenza che rivibra in noi
    non può per intelletto esser compresa
    da poi che l'io solo con se stesso,
    soggetto, oggetto della conoscenza,
    come uno specchio vano si moltiplica
    inutilmente ed infinitamente
    e nel riflesso è prigioniero il raggio
    di verità che l'occhio non discerne.
    Giova quindi sottrarci all'incantesimo
    alla voce che implora di rivivere
    come a un morbo insanabile terrestre.
    Negli attimi di grazia, quando l'io
    dilegua nei pensier contemplativi
    quando l'istinto tace e si compiace
    nella gioia dell'utile non nostro
    o freme ad una strofe ad una musica
    nell'ebrezza senz'utile dell'arte,
    forse ci giunge il pallido riflesso
    d'una luce remota, della vita
    che ci attende al di là, nel puro spirito,
    nel non essere noi, nell'ineffabile.
    È la fede che Socrate morente
    predicava all'alunno: «Datti pace!
    Non morirò: seppelliranno l'altro».
    È la luce che Baghava Purana
    rivelava sul tronco del palmizio:
    «Solo eterno è lo spirito. Non piangere
    su te su me su altri. Perché l'io
    ed il non io son frutto d'ignoranza.
    Desideravi un figlio, o Re; l'avesti;
    oggi provi lo strazio del distacco,
    strazio che dànno tutte le fortune
    a chi s'illude e pensa durature
    l'apparenze caduche della vita.
    Solo eterno è lo spirito. Nei tempi
    chi fu per te quel figlio che tu piangi?
    Chi tu fosti per lui? Che voi sarete
    l'uno per l'altro nell'ignoto andare?
    Sabbia del mare, foglie date al vento...
    Solo eterno è lo spirito. Consolati».
    Ma il re singhiozza disperato ancora
    e pel prodigio d'uno di quei rishy
    l'anima si ridesta nel cadavere,
    si guarda intorno sbigottita, dice:
    «In quale delle innumeri apparenze
    d'animali, di uomini, di devhas
    m'ebbi per padre questo che m'abbraccia?
    Non mi toccare: io non ti riconosco.
    O tu che piangi su di me non piangere.
    Solo eterno è lo spirito. Consolati!».
    Così parlato il giovinetto muore
    un'altra volta. L'anima s'invola
    eternamente. E il Re non piange più.

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